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venerdì 28 febbraio 2014

Recensione: Franz Kafka - La metamorfosi

Inizio subito dicendo che sono di parte. Franzk Kafka è così reale da entrarti dentro per effetto osmosi. Come sarà successo a molti di voi, Kafka l'ho incontrato a scuola. Se ne stava nascosto fra le pagine, timido timido e un po' miserabile.

Franz Kafka Nacque a Praga nel 1883 e morì di tubercolosi a Kierling nel 1924. In vita, molte delle sue opere non furono mai pubblicate. Persona molto angosciata, soffrì di anoressia nervosa e disturbo ossessivo compulsivo. I suoi scritti - per alcuni critici molto vicini a quella corrente di pensiero che sarà definita in seguito esistenzialismo - riflettono le sue ansie e il suo punto di vista nei confronti della condizione umana.




La metamorfosi è un libro da leggere quando si ha il punto di vista giusto per farlo. A metà fra surrealismo e realismo magico, racconta la storia sfortunata di Gregor Samsa - pseudonimo che ricorda non poco il nome del suo autore - alle prese con un evento totalmente inaspettato.
Una mattina come tante altre, Gregor Samsa, un commesso viaggiatore che lavora per mantenere la sua famiglia, si risveglia trasformato in un gigantesco e ripugnante insetto.
Da questo momento dovrà fare i conti con la sua nuova condizione e con le reazioni avverse dei suoi familiari.

Questo libro è in grado di delineare tutti gli aspetti psicologici e relazionali di Kafka. Il difficile rapporto con il padre, il senso di alienazione e angoscia.
L'autore prende una famiglia normale, una persona normale e, invece di trasformare il tutto o far evolvere gli eventi emozionali secondo le normali logiche umane, mette in piedi una situazione immaginifica e allegorica. La metafora del diverso; ripudiato, odiato ed emarginato.
Non esiste via di fuga per il protagonista, al contrario, può solo fare i conti con la propria condizione, accettarla così com'è e mettersi il cuore in pace.
L'evoluzione, in questo libro, risiede nel processo di spersonalizzazione nel quale Gregor Samsa - che in un certo senso rappresenta l'individuo emarginato - viene risucchiato.
Sentirsi diverso, essere ripudiato e lasciato solo. Il senso di claustrofobia (psicologica soprattutto) metaforizzato dal fatto che Gregor Samsa non lascia mai la propria stanza. 
Elementi che concorro tutti nel rendere il grottesco una situazione reale e sentita nel lettore, una condizione sempre presente e pronta a emergere.
Non esiste un lieto fine, non troverete un finale aperto alle interpretazioni. 
Più la narrazione procede, più comincerete a odiare Gregor Samsa più dei suoi stessi genitori. Kafka riesce a far sentire al lettore tutto il peso della sua condizione.
E' come leggere una lenta e dolorosa agonia, e sapere già che non vi sarà via d'uscita se non la morte. Lo sappiamo, appena Gregor Samsa si risveglia da insetto, che morirà di lì a poco. Eppure non riusciamo a fare a meno di arrivare fino alla fine proprio perché non possiamo andare contro le logiche della condizione umana.

L'uomo si fa granello di sabbia, debole, piccolo e insignificante. E attraverso questo racconto Franzk Kafka ce lo fa capire, dimostrando che, messi a confronto con la vita, siamo tutti un po' miserabili.


Quanto è lontana casa tua?

Erano giorni che avevo un po' di tarli per la testa. La scuola non funzionava, la mia situazione sentimentale non funzionava, insomma, molte cose andavano storte e il mio inconscio decise di farmelo capire una volta per tutte con questo incubo.

Ero in un campo di terra appena arata. Il cielo era buio, ma non c'erano nuvole e nemmeno stelle. Era, semplicemente, nero.
Una luce pallida e fine come la neve cadeva tutta intorno e l'illuminazione risultava abbastanza precaria. Non c'era vento, non faceva freddo.
Cominciai a camminare, le scarpe - avevo su un paio di all star nere - affondavano nel terriccio senza difficoltà, era molto simile alla sabbia, ma aveva il colore dei campi appena concimati.
Guardando avanti, lungo l'orizzonte si stava facendo largo la sagoma di una casa. Era una villa di campagna: due piani con tante finestre, un tetto pieno di tegole scure e probabilmente una soffitta.
Inciampai e caddi con la faccia nel terreno. Sapeva di muffa, aveva quel sapore aspro del verde che si forma sulla frutta quando è andata a male.
Quando mi rialzai, mi resi conto di aver urtato il teschio di un animale con la punta del piede. Aveva le corna bianche e lunghe, il muso simile a quello di un capriolo e mi sorrideva. Nell'incavo dell'occhio destro c'erano si e no un milione di larve bianche, grosse come il mio pollice.
Mi venne il vomito e mi allontanai.
Cominciai a correre verso quella casa, ma facevo fatica come se avessi due macigni legati alle caviglie. Le gambe non riuscivano a muoversi con agilità.
Il terreno cominciò a rigurgitare teschi dalle forme più assurde: alcuni a forma di patata, altri a forma di cuore, altri ancora sembravano tanti teschi umani gettati in un mucchio. Cercavo di saltarli, ma ne spuntavano sempre di nuovi assieme a coleotteri delle dimensioni di una mano.
Cominciai a sentire freddo e mi accorsi di avere addosso solo una t-shirt a maniche corte.
Finalmente raggiunsi la porta della villa, entrai, faceva ancora più freddo. La hall era una stanza grande con il pavimento in parquet e una scala frontale che portava ai piani superiori.
Sul lato destro e su quello sinistro probabilmente c'erano la sala e la cucina, ma non ci andai. Non so ancora bene il motivo, ma sentivo il bisogno di salire quelle scale.
Avevo le mani gelide e dalla bocca usciva la condensa del mio alito.
La cosa strana è che, proprio nel sogno, quella condensa mi fece tornare alla mente il film "Il sesto senso".
Avevo ricordi diversi nel sogno. Ero una ragazza, alle elementari avevo una maestra di nome Giulia che abitava in una casa simile, era in aperta campagna, in mezzo alla Toscana ed era circondata dai vigneti perché suo nonno gestiva un'impresa in cui vendeva vino ai ristoranti. E io mi ricordavo bene alcuni di quei ristoranti.
Mentre riaffioravano tutti quei ricordi, un gradino alla volta salivo quelle scale e, un gradino alla volta, le mie mani diventavano sempre più fredde e intorpidite.
Raggiunsi il primo piano, ma non c'erano stanze. Era un unico grande corridoio con il soffitto altissimo e portava a una porta minuscola fatta di legno. Provai ad aprirla, ma non ne avevo la forza. La mia mano era diventata così piccola...
Decisi di andare al secondo piano. Le scale non emettevano alcun suono ed erano in marmo nero.
C'era una sola stanza, la porta era socchiusa e da quella piccola fessura proveniva la luce di una lampada a olio e uno strano odore come di carne in decomposizione.
Mi infilai dentro, quasi di nascosto.
C'era una finestra davanti a me, dava sul campo di terriccio.
Vicino alla lampada a olio c'era un materasso e lungo il bordo era seduta una persona in abito nero. Aveva i capelli della maestra, Giulia.
Accarezzava qualcosa, all'inizio non riuscii a vederla perché la sua schiena la copriva per intero.
Mi avvicinai.
Il pavimento in parquet cominciò a scricchiolare, ma quella donna non si voltò. Così, andai più vicino e mi fermai proprio dietro di lei.
Sul letto c'era una bambina dai capelli biondi, aveva il viso pallido e le labbra secche e screpolate. Guardai il lenzuolo per vedere se il suo petto si muoveva. Era immobile come un baco da seta.
La donna, la maestra Giulia, senza voltarsi, cominciò a piangere. Singhiozzava. L'odore di carne in decomposizione era diventato insostenibile, avevo lo stomaco chiuso e facevo fatica a trattenere i conati.
Quando mi voltai e provai ad andarmene, la maestra mi prese per un braccio.
Vidi solo la sua mano, era enorme in confronto al mio braccio e il soffitto, in un secondo, era diventato incredibilmente alto.
Non mi voltai verso di lei. La maestra smise di piangere e mi disse: "Finalmente sei tornata".



"La grotta degli incubi è la fine di un tunnel nel quale il Bruco cataloga e ripone tutti quei sogni in cui la pace e la serenità sono bandite per legge"




giovedì 27 febbraio 2014

Recensione: Josè Saramago - Le intermittenze della morte

Quando scoprii Saramago era un giorno qualsiasi, piovoso, freddo e senza grandi eventi. Ero in metropolitana, seduto a fissare il nulla, quando a un certo punto una donna dai capelli bruni entrò e andò a sedersi di fronte a me. Aprì la borsa e tirò fuori questo libro. Trovai assurda l'immagine in copertina e ancora più dissonante il titolo. Per questo non ho potuto fare a meno di scendere, trovare una libreria e comprarlo.


Josè Saramago nacque ad Azinhaga - Portogallo - nel 1922 e morì a Tinas nel 2010. Diventò famoso soprattutto per il suo lavoro di critico letterario, lavorando per la rivista Seara Nova. In seguito si cimentò anche nel giornalismo, nella drammaturgia, nella poesia e nella letteratura, arrivando a conseguire il premio Nobel nel 1998.




Questo è uno di quei libri che riesce a definire le capacità dell'autore a tutto tondo. Lo stile, a un lettore poco preparato, potrebbe sembrare ostico, soprattutto per l'utilizzo della punteggiatura nei dialoghi - adopera le virgole e non usa i punti interrogativi. I personaggi non hanno nomi propri: il violoncellista, la morte, i maphiosi.
Leggendolo ho immaginato la domanda fondamentale, quella che dà il via all'idea, al principio di tutto, prima ancora della stesura.

Cosa accadrebbe se...?

Ed è esattamente questa la spinta. Cosa succederebbe se, senza alcun preavviso, la morte smettesse di fare il proprio dovere?
Accadrebbe tutto quello che succede in queste pagine. Non si morirebbe più e, dopo un inizio trionfale, gli amanti rinnegati comincerebbero a gettarsi sugli scogli all'infinito, i malati terminali non finirebbero mai di morire e la mafia metterebbe in piedi un traffico illecito di persone morenti.
Si, esatto: traffico di persone che, volendo a tutti i costi morire o essendo bloccati in un'infinita e lenta agonia, non potrebbero trapassare a meno che non varchino i confini della nazione nella quale la morte ha deciso di prendersi un periodo di ferie.
Sia chiaro, non è un libro con intenti filosofici sulla vita e la morte. E' un testo allegorico.
Saramago mette in piedi una situazione nella quale si evidenziano l'incapacità e l'inferiorità dell'uomo nei confronti della natura. La sua dipendenza dalla morte.
Chiede al lettore di porre un assioma, diciamo, e di seguirlo come se fosse reale. In questo caso ogni azione, ogni effetto di quella scelta avrà un senso.
L'autore, oltretutto, inserisce anche le proprie opinioni sulla Chiesa e sulla politica. Registra e pone sotto gli occhi del lettore tutte le contraddizioni dell'essere umano.
Stiamo parlando di surrealismo e devo dire che il sarcasmo di fondo, più nero del buio, mi ha ricordato da lontano il film "Harry a pezzi" di Woody Allen.
Hanno qualcosa di simile che va oltre gli occhiali da vista.
Al contrario dei film del famoso regista, leggendo questo libro mi sono dovuto coprire più volte, perché il freddo si sente e la parte oscura dell'uomo non tarda ad affiorare.

E' una lettura che necessita di un certo grado di concentrazione e di sicuro lo consiglio a chi ha molta dimestichezza col cinismo.



mercoledì 26 febbraio 2014

Qual è il tuo sogno più grande?

Questo pomeriggio ho fatto un sogno molto particolare. Lo faccio da quando sono bambino, ma questa volta aveva alcuni dettagli in più.

Mi trovavo in uno studio di registrazione. Avevo una chitarra fra le mani e sentivo la presenza di due amici. Volevamo registrare un disco, così loro due cominciarono a suonare per primi - basso e batteria.
Quando arrivò il mio turno, gli strumenti non funzionavano, la chitarra gracchiava come una rana e il produttore continuava a dirmi cosa fare.
Così decisi di lasciar perdere e tornare un altro giorno.
Uscii.
Era pomeriggio inoltrato e guardando l'orologio notai di essere in ritardo per la cena. Mentre camminavo lungo il marciapiede, un tizio diede un calcio a un animale - forse un tasso o un riccio - e quello andò a colpire il ramo di una palma che cresceva come un cespuglio. Il ramo si spezzò e sia quello che il tasso/riccio mi guardarono e scapparono via.
Contemporaneamente mi accorsi di aver dimenticato il maglione in studio.
Tornai dentro.
C'erano alcune persone nella sala d'attesa, ma non feci caso alla loro presenza. Cercai quel maledetto produttore e soprattutto il mio maglione, ma non riuscii a trovarli.
Anzi, più mi addentravo, più l'edificio si espandeva, rigurgitava stanze, corridoi con pavimenti in moquette blu e pareti bianche.
Finii per ritrovarmi in un'aula simile a quelle universitarie: enorme, piena di sedie e con un proiettore spento in fondo alla sala. Una donna, sulla quarantina, capelli ricci e neri, mi fissava così come si guarda una cosa messa nel posto sbagliato.
Me ne andai. O perlomeno ci provai.
Passai da un corridoio all'altro e più andavo avanti, più questi tunnel diventavano trasparenti, ovali e simili alla plastica.
Raggiunsi il giardino. Vidi il cielo, era azzurro come un lapislazzuli. C'erano una moltitudine di persone, uomini e donne vestiti come se lavorassero per una multinazionale.
Salivano delle scale di vetro con dei cordoli di sicurezza, l'acqua gli arrivava alle caviglie.
Mi resi conto che anche io avevo i piedi immersi nell'acqua e mi trovavo in una delle piscine che salivano sempre più in alto attraverso quelle scale fatte a bacinelle, tutte colme d'acqua trasparente.
Provai a seguirli, ma non riuscivo a reggermi in piedi perché le piscine erano rialzate di parecchi metri rispetto al livello della strada ed erano inclinate di circa trenta gradi. Avevo paura di scivolare e cadere da chissà quale altitudine.
Non riuscivo a capire come facesse l'acqua a rimanere ferma.
A un certo punto trovai una via d'uscita: si trattava del cornicione di una casa, o almeno credo.
Credo, perché la prima cosa che mi dissi appena misi piede sopra quel letto d'erba verde fu: "Come ci sono arrivato qui?"
Guardai giù. Era molto più alto di quello che pensavo ed era pieno di bambini a terra. In alto, invece, gli adulti continuavano a salire.
Iniziai ad aver paura, la terra del cornicione cominciava a sgretolarsi.
Provai a tornare indietro, a ritornare sui miei passi e a vedere se c'era qualche via di fuga laterale, dato che il cornicione finiva in una gola dalla quale spuntavano alberi altissimi. Di fronte c'era un cortile e un condominio, i bambini giocavano dappertutto.
Nel tornare indietro la terra cominciò a trasformarsi, oltre che a sgretolarsi. I fili d'erba sfiorivano in enormi cuscini bianchi e nel punto in cui avevo cominciato a camminare, spuntarono delle piccole casette di legno sorrette da molle che dondolavano a destra e a sinistra. Un po' come i giochi per bambini a forma di moto o di macchina nei parchi comunali.
In qualche modo riuscii a scendere, aprii la porta togliendo la serratura da una di quelle casette e mi ritrovai davanti due bambine un po' cicciottelle, vestite di verde e con delle piccole ali trasparenti dietro la schiena. Erano folletti e anche loro mi guardavano scambiandosi occhiate come per dire: "Ma che ci fa lui qui?"

Poco dopo la pioggia mi svegliò.


"La grotta dei sogni è la fine di un tunnel nel quale il Bruco cataloga e ripone tutti i suoi sogni, quelli belli, fantasiosi e sereni."

Recensione: Gabriel Garcìa Marquez - Cent'anni di solitudine

Un paio di estati fa - forse il 2011 - stavo andando a trovare i miei nonni a Lido di Savio e mentre l'autobus faceva sosta in autogrill, cercai qualcosa da leggere nelle due settimane successive, dato che non c'è mai nessuno in quel posto.
Per caso capitai davanti a una vetrina e, sempre per caso, lì tutto solo scovai questo libro. Non fui attratto dalla copertina o dalla scritta che capeggiava bella grande "Premio Nobel per la letteratura nel 1982".
Era il titolo a essere tremendamente malinconico. Non lessi neanche la trama, lo comprai e scoprii l'isola del tesoro ancora prima di vedere il mare.

Gabriel Garcìa Marquez è nato ad Aracataca - Colombia - nel 1927 ed è ancora oggi vivente nonostante il morbo di Alzheimer non gli permetta più di scrivere. Nella sua vita ha fatto il giornalista e ha tentato la carriera universitaria in giurisprudenza e scienze politiche, senza mai portarle a termine. E', forse, il più importante esponente colombiano del genere definito realismo magico.



Appena cominciai a leggerlo non mi piacque subito. Il punto debole lo trovai nello stile narrativo in terza persona, quasi del tutto privo di dialoghi.
I personaggi sono molti, forse troppi e potrebbe facilmente confondere il lettore. I capitoli sono divisi in numeri, senza titoli, e la leggenda narra che Marquez ci mise ben quindici anni per dargli un senso e cominciare a scriverlo.

Il libro narra la storia, srotolata in cent'anni, della famiglia Buendìa e delle loro vicissitudini in quel di Macondo - città immaginaria fondata dal capostipite dei Buendìa - che ricorda non poco i luoghi vissuti da Marquez nella realtà.
Il tempo è ciclico, infinito. La città di Macondo viene visitata dagli zingari, che a ogni ritorno recano con sé nuovi oggetti e cianfrusaglie varie. Agli abitanti della città sembrano non invecchiare mai.
Tra tutti c'è un uomo, amico di famiglia dei Buendìa - Melquiades - che tenta invano di decifrare un misterioso manoscritto.
Durante quel secolo intero molti della famiglia tentano di capirne il significato, fino a quando l'ultimo superstite non scopre la lingua nella quale è scritto, arrivando così al senso finale.
Un finale che non posso raccontarvi.

In questo libro ho trovato un meccanismo, più che un senso. Un modo di interpretare la vita. Macondo, in una certa maniera, rappresenta la costante nella quale siamo tutti immersi, il tempo infinito e - proprio per il suo essere infinito - ciclico, come un eterno ritorno. Poi c'è la volontà di potenza dell'essere umano, in grado di trasformare se stesso e ciò che lo circonda.
La vita è un continuo, eterno ritorno.
Noi ripetiamo le azioni dei nostri genitori, i nostri genitori ripetono le azioni dei nostri nonni. E in tutto questo esiste un'infinitesimale variazione che, nonostante la nostra volontà, cambierà riportandoci al punto di partenza proprio perché destinata a perdersi in se stessa.

Si potrebbe aprire un dibattito sull'argomento, ma non è questo il caso.

E' un libro da leggere in estate, di questo ne sono sicuro. E almeno una volta nella vita va assaporato in tutta la sua crudezza.

Lo consiglio a chi crede che la propria strada non sia quella giusta, agli amanti di Borges e agli appassionati di realismo magico.








martedì 25 febbraio 2014

Recensione: Pier Vittorio Tondelli - Rimini

Questa notte sono in vena di nostalgie. Tondelli per me, in un certo senso, è sinonimo di anni '80.

Nato a Correggio nel 1955 e morto di AIDS nel 1991 a Reggio nell'Emilia, questo autore non è uno scrittore, non credo lo sia mai stato. E' un narratore, di quelli d'alto livello, forse impareggiabili. In vita scrisse uno dei libri più clamorosi della letteratura italiana: Altri libertini. Ma ne parlerò nei post successivi.




Rimini è un romanzo che cattura, si fa leggere ed è scritto veramente bene. E' forse uno dei pochissimi libri scritti da lui in veste di scrittore e non di narratore. E in effetti lo si capisce.
Nelle ultime pagine Tondelli ci spiega che questo libro è nato per caso: doveva scrivere alcuni articoli in quel di Rimini, ma non ci andò mai e decise di crearci su una storia.
Vi sono parecchi intrecci: un sassofonista, un giornalista - Marco Bauer - una ragazza tedesca in cerca di sua sorella e altro ancora. Tutti accomunati da quel luogo, tutti immersi in quei turbolenti anni '80.
La nascita degli yuppies, per fare un esempio. In questo libro ci sono tutte le caratteristiche dell'uomo travolto da quei momenti, dalla moda sfrenata, dall'emancipazione omosessuale, da quella terribile malattia che è l'AIDS - anche se non ne parla mai.
Non ci sono messaggi importanti, non c'è una morale. Nonostante tutto, è un libro che non lascia molto al lettore, se non una piacevole immersione, per così dire.
No, non mi è piaciuto. Tondelli non era uno scrittore, non creava intrecci clamorosi o personaggi destinati a rimanere nella storia.
Era ciò che narrava a dover rimanere nella storia.
Alcune parti di questo libro risultano un po' confuse, ma non per lo stile narrativo - assolutamente impeccabile.
Forse è quel continuo cambio di prospettiva, il passaggio dalla prima alla terza persona senza alcuna avvisaglia per il lettore, a renderlo maledettamente ostico.
Ammetto che in alcune parti mi ci sono ritrovato, soprattutto nella lettera del ragazzino, quando descrive la spiaggia, gli scogli, i bomboloni alla crema - e sfido chiunque a dire il contrario se ha passato le vacanze nei dintorni di Rimini.
La crudezza dei risvolti sessuali, le descrizioni meticolose di quei rapporti sia etero che omosessuali passano quasi inosservate. Questo grazie alle sue capacità narrative, al perfetto utilizzo dei climax.
Sembra di essere lì insieme ai suoi personaggi, quando li descrive.
E se ci si concentra abbastanza si può persino sentire l'odore e il sapore di ciò che descrive, la confusione delle conferenze e dei party ai quali partecipa il giornalista Marco Bauer.
L'omicidio del politico di turno lo rende, a tratti, un giallo o noir per meglio dire, ma in realtà non è nulla di tutto questo.

Rimini è semplicemente un libro che ci regala - forse all'insaputa dello stesso Tondelli - il punto di vista di un giovane intellettuale degli anni '80.

Recensione: Haruki Murakami - Nel segno della pecora

Questo autore l'ho scoperto per caso, su consiglio di un amico. Edito dalla Einaudi pochi anni fa, era introvabile nell'edizione degli anni '90.




Nonostante il titolo particolare, è un libro che induce alla calma. Tutto succede senza grandi azioni.
Il protagonista dal nome sconosciuto è un pubblicitario che manda avanti la sua azienda assieme a un socio. Un giorno, risvegliato nella monotonia della sua vita, riceve una richiesta da uno strano individuo: deve trovare una pecora con una macchia a forma di stella sulla schiena.
Non è una pecora qualsiasi, questa è speciale.
Contemporaneamente la moglie lo lascia e lui si ritrova solo ad affrontare questa strana avventura, viaggiando attraverso l'Hokkaido assieme a una ragazza dalle orecchie bellissime e con strani poteri sensoriali.
E' un libro figlio del '68: l'inquietudine giovanile - capace di far crollare tutto con una spallata - la ricerca di una propria identità e il processo di americanizzazione del Giappone avvenuto dopo il secondo conflitto mondiale.
Murakami segna l'inizio di una nuova era per la letteratura nipponica, si lascia alle spalle il patriottismo dei libri di Yukio Mishima e abbraccia uno stile immerso nel realismo magico, nella volontà di cambiare il passato e adattarlo alle proprie nostalgie.
Chi sono io?
Eccola la domanda principale del libro. La ricerca di una nuova identità, di un nuovo percorso o di un senso della vita.
La pecora rappresenta la ricerca stessa, la strada oscura e sinistra oltre i limiti del paranormale. Il tutto scandito dai ritmi euforici della musica figlia di quel periodo: Rolling Stones, The Doors, Moody Blues.

In questo libro l'odio nei confronti della politica è più che evidente. Il Maestro, un uomo misterioso che ha costruito un impero sia politico sia mediatico proprio grazie alla pecora, rappresenta tutto ciò che di marcio può esistere nella politica. L'arrivismo, il potere, il totalitarismo. Temi cari all'autore e purtroppo sempre attuali.
Il tutto condito da un'atmosfera fiabesca e piena di solitudine. Non quella solitudine in grado di creare disagio. E' ricercata, quella del protagonista, forse abusata, come quando si ritrova solo, nella casa del suo amico - Il Sorcio - a meditare raccolto su se stesso, in mezzo alla natura, all'inverno e alla neve.
Come a constatare che una ricerca simile può aver luogo solo dentro di noi.

E' una simbologia chiara e un libro consigliato se si vuole imparare a leggere Murakami fra le righe.




lunedì 24 febbraio 2014

Recensione: Richard Brautigan - L'aborto. Una storia romantica

Ho scoperto questo autore pochi mesi fa, mentre spulciavo il catalogo della ISBN Edizioni, la casa editrice diretta da Massimo Coppola (Avere vent'anni - Masterpiece).

Richard Brautigan nasce a Tacoma nel 1935 e muore suicida a Bolinas nel 1984. E' stato uno dei più originali interpreti della controcultura californiana sul finire degli anni '60. Il suo successo lo deve al suo più grande romanzo - di cui vi parlerò nei post successivi - Pesca alla trota in America, scritto in prosimetro nel '61 e pubblicato nel '67 (fece molta fatica a trovare un editore per questo libro). Grazie al successo ottenuto vennero riscoperti molti altri suoi romanzi già editi, tra i quali l'Aborto.




Trama: Mi ha subito colpito il titolo, senza tanti giri di parole: L'Aborto - Una storia romantica. Un nome che suscita riflessioni, ad alcuni disgusto, ad altri un certo senso morale.
Posso dire subito che non è uno di quei libri bacchettoni, non troverete riflessioni sull'amore o sulla morte. Non ci sono velleità religiose, insomma, non vuole insegnare niente a nessuno. Ed è proprio questo ciò che colpisce.
Un bibliotecario, ingenuo, impacciato e poco incline alla vita mondana, si vede recapitare ogni giorno libri di ogni tipo dalle persone più improbabili: bambini, vecchiette amanti dei cioccolatini, persone disturbate.
Un giorno qualsiasi, mentre cataloga libri e fa firmare il suo registro del deposito, arriva alla biblioteca una donna bellissima, alta e dalle fattezze giunoniche. Vida.
Tra i due scoppia subito l'amore, si intendono bene. Lui, schivo, poco portato per vivere. Lei piena di complessi derivati dalla sua eccessiva bellezza.
Le conseguenze del loro amore distratto li porterà in viaggio verso il Messico, dove ad attenderli troveranno un dottore che per duecento dollari pratica aborti clandestini.

Analisi: Cos'ha di speciale questo libro?
Di sicuro non è lo stile, minimalista, scarno, ai limiti della favola per bambini. Non si perde in virtuosismi letterari o descrizioni prolisse di paesaggi e situazioni. Mostra le cose così come sono, semplici. Situazioni che non fanno parte del bene o del male.
I due personaggi principali, il bibliotecario e Vida, non hanno caratterizzazioni particolari, sono caricature di stati d'animo, vergogna, inadeguatezza. I loro conflitti rimangono quasi del tutto oscuri al lettore. Brautigan con il suo scritto vuole che il lettore si concentri solo ed esclusivamente sulle loro azioni, non sulla morale. Per questo motivo non si perde in giri di parole, discussioni sulla vita, l'universo e tutto quanto. L'azione è ciò che conta, presa con razionalità o come direbbe un certo Nietzsche: al di là del bene e del male.

Una cosa che ho imparato da questo libro è che la verità non risiede necessariamente nel mezzo. Molto spesso, anzi, si trova semplicemente dalla parte giusta e sta a noi capire quale sia.
L'aborto in questo caso non viene enunciato, elaborato e sviluppato. Lo si affronta con razionalità, con la consapevolezza di chi sa che certe tematiche non possono essere collettivizzate.

La lettura di questo libro mi ha fatto tornare alla mente la canzone di un gruppo hip hop a me caro: gli Uochi Toki (La Tempesta Dischi). Ascoltatevi la loro canzone: