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lunedì 19 maggio 2014

Sei mai stato dall'altra parte?


Questo sogno è molto ricorrente. Più che altro sono gli elementi del sogno ad essere comuni. L'ho fatto di recente, circa una settimana fa. Ci metto sempre un po' a metabolizzarli.

La prima cosa che vidi fu un'autostrada. Il mio sedile sobbalzava e sotto i polpastrelli delle dita potevo sentire la consistenza del suo finto velluto blu. Era un pullman, uno di quelli provinciali perché di fianco alla strada c'erano campi d'erba verde e di pannocchie. Il sole era caldo, ma non percepivo molto la temperatura. C'erano altre persone sull'autobus, potevo vedere solo la loro nuca. Alcune giovani, altre un po' più avanti con l'età, insomma era un'insalatiera piena di soggetti - io compreso - che andavano chissà dove. Come succede spesso nei sogni in cui mi ritrovo su di un pullman, l'autista a un certo punto si preparò per effettuare una strana manovra. L'asfalto grigio cominciò a salire, il mezzo borbottava sotto le spinte del suo acceleratore. La strada si inclinò di circa quarantacinque gradi. Cambiò marcia più volte, fu sul punto di fermarsi e procedere al contrario. Senza rendermene conto, i campi di pannocchie divennero sempre più lontani, più bassi, fino a scomparire in una gola. Stavamo scalando una montagna e la strada era così ripida che credevo ci saremmo ribaltati. Al contrario di molte altre volte, il pullman riuscì ad andare avanti, a passare il tornante. Pochi secondi dopo curvò a destra. La strada tornò dritta; un rettilineo talmente lungo da mischiarsi all'orizzonte. Nessuno dei passeggeri disse nulla, era come se aspettassero quel momento. Erano calmi, guardavano fuori dal finestrino. Mi resi conto che ero l'unico a rimanere aggrappato con le unghie al sedile, rigido come un blocco di gesso. Pochi secondi dopo arrivammo oltre, non so bene come e dove, ma la sensazione era quella di aver attraversato una barriera invisibile fra il nostro mondo e l'altro. Era tutto buio, non c'era un vero e proprio pavimento. Si poteva camminare, ci si poteva guardare attorno. Qualsiasi punto osservassi, mentre scendevo dall'autobus, era nero. Le persone però erano chiare, soprattutto quelle che avevo di fianco. Davanti a noi vidi un edificio. Era comparso dal nulla, pensavo. Invece qualcuno, non so bene chi dato che parlava più nella mia testa che attorno a me, mi spiegò che quello era un albergo, un albergo molto grande nel quale i nuovi arrivati dovevano passare un po' di tempo. Anche la parola tempo mi è difficile da utilizzare. Quella voce mi disse che lì, il tempo, non esisteva.

Mi fece vedere uno schema, una specie di mappa tracciata con delle linee bianche - in teoria erano i confini di quel mondo, ma anche quei confini non esistevano, lo faceva perché quelli come me, i nuovi, avevano ancora un punto di vista soggettivo, disse.
Puntellò gli spazi fra le linee dicendomi che quei segni rappresentavano le persone. Fece una mappa analoga, della Terra. Poi tracciò altre linee, questa volta collegavano i puntini tracciati sulla terra con quelli tracciati sulla mappa di quel luogo. Poco dopo, qualcuno ci fece entrare nell'edificio. Vidi un uomo sulla cinquantina, capelli ricci neri, fisico ben piazzato, aveva l'aria del corridore, e di fatto correva come se si stesse allenando per una maratona. Venne verso di noi e ci superò, senza dire una parola. 
La sala era enorme, spaziosa e piena di tavoli lunghi disposti sia uno in fila all'altro, sia di fianco. Visto da lontano sembrava pieno di persone.
Non c'era luce elettrica. Su ogni tavolo, a distanze  ben calibrate, si trovavano candele bianche che emanavano una leggera luminescenza color miele.
Mi avvicinai a un tavolo. C'erano tre persone. Una seduta a capotavola, due ai lati. Quella di fronte a me, dall'altra parte del tavolo, non era umana.
Aveva il fisico di un uomo, il petto era più largo e le mani mostravano cinque unghie bianche e affilate. La testa era più piccola della nostra, come quella di un neonato. Aveva il mento appuntito e la carnagione scura come la notte. Gli occhi, o meglio, quelli che dovevano essere gli occhi secondo la mia logica, erano formati da una striscia bianca. Non sapevo cosa dire. Non avevo paura, in qualche modo sapevo che quel luogo non era ostile. L'unica spiegazione che mi diede la voce nella mia testa fu che il posto dal quale provenivo serviva a popolare quel luogo. Più precisamente, la voce disse che serviva a riempirlo, come una bilancia.

mercoledì 14 maggio 2014

Recensione: Fratelli Coen/Cormac McCarthy - Non è un paese per vecchi

Cormac McCarthy è uno degli scrittori considerati pilastri della letteratura americana del ventesimo secolo. Sono perfettamente d'accordo con chi lo sostiene. E questo libro - e parlo ovviamente anche del film - ne è la prova.



Trama: Ambientato in Texas nel 1980, narra la storia di Lyewelyn Moss, un reduce della guerra del Vietnam che impiega il tempo come saldatore. Moss, durante una battuta di caccia, si ritrova in mezzo a un campo di battaglia, immerso in quella che subito comprenderà essere stata una guerra fra narcotrafficanti finita a colpi di pistola. Moss trova una valigia piena di soldi - che sarebbe servita a pagare la cocaina disposta in pacchetti su uno dei camion della banda. 
Convinto di aver fatto la scoperta che cambierà la vita a lui e a sua moglie, torna a casa. L'ex marine non ha idea del fatto che all'interno vi è una radio ricevente e che un sicario psicopatico - Anton Chigurh - è sulle sue tracce, così come i narcotrafficanti. Di lì a pochi giorni, la vicenda precipiterà in un vortice di violenza.

Analisi: Non è un paese per vecchi lo considero un trattato di filosofia, o meglio, di sociologia contemporanea. McCarthy, tramite la narrazione e con lo stile cupo e tenebroso che lo contraddistingue ci pone davanti a una situazione reale, tangibile. Lo fa attraverso Anton Chigurh, un sicario con un'identità morale tutta sua, convinto di essere la mano del destino. Spesso decide con il lancio di una moneta la fine che faranno le sue vittime.
Il concetto della violenza di oggi si può trovare nei monologhi dello sceriffo Ed Tom Bell, che rappresenta un po' il lato analitico della vicenda: "A venticinque anni ero già lo sceriffo di questa contea. Difficile a crederci. Mio nonno faceva lo sceriffo, cosi come mio padre. Credo ne andasse fiero, io ne andavo fiero eccome. Ai vecchi tempi c'erano sceriffi che non giravano neanche armati. Molta gente stenta a crederci. Uno non può fare a meno di paragonarsi a loro, di chiedersi che fine avrebbero fatto al giorno d'oggi. C'è un ragazzo che ho mandato sulla sedia elettrica un po' di tempo fa, su mio arresto e su mia testimonianza. Aveva ammazzato una ragazzina di quattordici anni. Il giornale scrisse che era un crimine passionale ma lui mi disse che la passione non c'entrava niente, che da quando si ricordava aveva sempre avuto in mente di ammazzare qualcuno e che se fosse uscito di galera l'avrebbe rifatto. Sapeva che sarebbe andato all'inferno. Da li a un quarto d'ora ci sarebbe andato. Con la criminalità di oggi è difficile capirci qualcosa. Non è che mi faccia paura, ma non ho intenzione di uscire per andare incontro a qualcosa che non capisco. Significherebbe mettere a rischio la propria anima".
Questo è il succo, il messaggio. 

La violenza, così come la conosciamo oggi, ha un senso? Una radice che riconduce a un perché logico?
La risposta di McCarthy è, ovviamente, no.

Lo consiglio a tutti coloro che si chiedono il motivo di tutta questa crescente violenza nel mondo, e che non trovano una risposta razionale.