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martedì 10 giugno 2014

Recensione: Cristiano Cavina - Un'ultima stagione da esordienti - Marcos y Marcos

Ho sentito parlare di questo autore qualche anno fa. Con il suo romanzo d'esordio vinse il premio Tondelli, quindi andava letto e va letto assolutamente.


Trama: Il romanzo è di stampo autobiografico e narra le vicende di un gruppo di ragazzi alle prese con il loro ultimo campionato di calcio giovanile - frequentano la terza media. Siamo a Casola Valsenio, luogo in cui vive l'autore; un piccolo paese di provincia dove il Dio del calcio ama farsi vedere fra campi polverosi, allenatori con una testa di cinghiale in panchina e arbitri poco capaci.

Analisi: Questo è il secondo romanzo di Cristiano Cavina. È un libro nel quale riversa il proprio vissuto, raccontandolo quasi come una favola, come un ricordo. Non ci sono dialoghi, solo "citazioni" di ciò che diceva il Mister, l'arbitro di turno e altri personaggi. Tutti in quel di Casola Valsenio.
Chi di noi non si è mai iscritto alla squadra di calcio dell'oratorio? Chi di noi non ha mai vissuto un campionato tirando calci a un pallone di cuoio secco, in mezzo a campi di ghiaia dove l'erba fresca su cui fare le scivolate, era un lusso?
Cavina racconta non solo se stesso, ma anche ognuno di noi. Riesce a entrare in una soggettività così intima da sembrare identica in ogni luogo.
E lo fa con un linguaggio informale, quasi sussurrandotelo all'orecchio. Come se stessi al bar del paese ad ascoltare le storie antiche di quei vecchietti che hanno fatto la guerra, che la vita l'hanno vissuta tragicamente.
Non c'è nulla di tragico nel libro di Cavina, forse solo la fine di una stagione che coincide con l'inizio dell'adolescenza. Forse la fine di un mondo che, prima o poi, tutti andremo a esplorare almeno una volta nella vita.

È un libro piacevole, da leggere con calma, in una giornata di sole, quando la nostalgia viene a farci visita.

lunedì 19 maggio 2014

Sei mai stato dall'altra parte?


Questo sogno è molto ricorrente. Più che altro sono gli elementi del sogno ad essere comuni. L'ho fatto di recente, circa una settimana fa. Ci metto sempre un po' a metabolizzarli.

La prima cosa che vidi fu un'autostrada. Il mio sedile sobbalzava e sotto i polpastrelli delle dita potevo sentire la consistenza del suo finto velluto blu. Era un pullman, uno di quelli provinciali perché di fianco alla strada c'erano campi d'erba verde e di pannocchie. Il sole era caldo, ma non percepivo molto la temperatura. C'erano altre persone sull'autobus, potevo vedere solo la loro nuca. Alcune giovani, altre un po' più avanti con l'età, insomma era un'insalatiera piena di soggetti - io compreso - che andavano chissà dove. Come succede spesso nei sogni in cui mi ritrovo su di un pullman, l'autista a un certo punto si preparò per effettuare una strana manovra. L'asfalto grigio cominciò a salire, il mezzo borbottava sotto le spinte del suo acceleratore. La strada si inclinò di circa quarantacinque gradi. Cambiò marcia più volte, fu sul punto di fermarsi e procedere al contrario. Senza rendermene conto, i campi di pannocchie divennero sempre più lontani, più bassi, fino a scomparire in una gola. Stavamo scalando una montagna e la strada era così ripida che credevo ci saremmo ribaltati. Al contrario di molte altre volte, il pullman riuscì ad andare avanti, a passare il tornante. Pochi secondi dopo curvò a destra. La strada tornò dritta; un rettilineo talmente lungo da mischiarsi all'orizzonte. Nessuno dei passeggeri disse nulla, era come se aspettassero quel momento. Erano calmi, guardavano fuori dal finestrino. Mi resi conto che ero l'unico a rimanere aggrappato con le unghie al sedile, rigido come un blocco di gesso. Pochi secondi dopo arrivammo oltre, non so bene come e dove, ma la sensazione era quella di aver attraversato una barriera invisibile fra il nostro mondo e l'altro. Era tutto buio, non c'era un vero e proprio pavimento. Si poteva camminare, ci si poteva guardare attorno. Qualsiasi punto osservassi, mentre scendevo dall'autobus, era nero. Le persone però erano chiare, soprattutto quelle che avevo di fianco. Davanti a noi vidi un edificio. Era comparso dal nulla, pensavo. Invece qualcuno, non so bene chi dato che parlava più nella mia testa che attorno a me, mi spiegò che quello era un albergo, un albergo molto grande nel quale i nuovi arrivati dovevano passare un po' di tempo. Anche la parola tempo mi è difficile da utilizzare. Quella voce mi disse che lì, il tempo, non esisteva.

Mi fece vedere uno schema, una specie di mappa tracciata con delle linee bianche - in teoria erano i confini di quel mondo, ma anche quei confini non esistevano, lo faceva perché quelli come me, i nuovi, avevano ancora un punto di vista soggettivo, disse.
Puntellò gli spazi fra le linee dicendomi che quei segni rappresentavano le persone. Fece una mappa analoga, della Terra. Poi tracciò altre linee, questa volta collegavano i puntini tracciati sulla terra con quelli tracciati sulla mappa di quel luogo. Poco dopo, qualcuno ci fece entrare nell'edificio. Vidi un uomo sulla cinquantina, capelli ricci neri, fisico ben piazzato, aveva l'aria del corridore, e di fatto correva come se si stesse allenando per una maratona. Venne verso di noi e ci superò, senza dire una parola. 
La sala era enorme, spaziosa e piena di tavoli lunghi disposti sia uno in fila all'altro, sia di fianco. Visto da lontano sembrava pieno di persone.
Non c'era luce elettrica. Su ogni tavolo, a distanze  ben calibrate, si trovavano candele bianche che emanavano una leggera luminescenza color miele.
Mi avvicinai a un tavolo. C'erano tre persone. Una seduta a capotavola, due ai lati. Quella di fronte a me, dall'altra parte del tavolo, non era umana.
Aveva il fisico di un uomo, il petto era più largo e le mani mostravano cinque unghie bianche e affilate. La testa era più piccola della nostra, come quella di un neonato. Aveva il mento appuntito e la carnagione scura come la notte. Gli occhi, o meglio, quelli che dovevano essere gli occhi secondo la mia logica, erano formati da una striscia bianca. Non sapevo cosa dire. Non avevo paura, in qualche modo sapevo che quel luogo non era ostile. L'unica spiegazione che mi diede la voce nella mia testa fu che il posto dal quale provenivo serviva a popolare quel luogo. Più precisamente, la voce disse che serviva a riempirlo, come una bilancia.

mercoledì 14 maggio 2014

Recensione: Fratelli Coen/Cormac McCarthy - Non è un paese per vecchi

Cormac McCarthy è uno degli scrittori considerati pilastri della letteratura americana del ventesimo secolo. Sono perfettamente d'accordo con chi lo sostiene. E questo libro - e parlo ovviamente anche del film - ne è la prova.



Trama: Ambientato in Texas nel 1980, narra la storia di Lyewelyn Moss, un reduce della guerra del Vietnam che impiega il tempo come saldatore. Moss, durante una battuta di caccia, si ritrova in mezzo a un campo di battaglia, immerso in quella che subito comprenderà essere stata una guerra fra narcotrafficanti finita a colpi di pistola. Moss trova una valigia piena di soldi - che sarebbe servita a pagare la cocaina disposta in pacchetti su uno dei camion della banda. 
Convinto di aver fatto la scoperta che cambierà la vita a lui e a sua moglie, torna a casa. L'ex marine non ha idea del fatto che all'interno vi è una radio ricevente e che un sicario psicopatico - Anton Chigurh - è sulle sue tracce, così come i narcotrafficanti. Di lì a pochi giorni, la vicenda precipiterà in un vortice di violenza.

Analisi: Non è un paese per vecchi lo considero un trattato di filosofia, o meglio, di sociologia contemporanea. McCarthy, tramite la narrazione e con lo stile cupo e tenebroso che lo contraddistingue ci pone davanti a una situazione reale, tangibile. Lo fa attraverso Anton Chigurh, un sicario con un'identità morale tutta sua, convinto di essere la mano del destino. Spesso decide con il lancio di una moneta la fine che faranno le sue vittime.
Il concetto della violenza di oggi si può trovare nei monologhi dello sceriffo Ed Tom Bell, che rappresenta un po' il lato analitico della vicenda: "A venticinque anni ero già lo sceriffo di questa contea. Difficile a crederci. Mio nonno faceva lo sceriffo, cosi come mio padre. Credo ne andasse fiero, io ne andavo fiero eccome. Ai vecchi tempi c'erano sceriffi che non giravano neanche armati. Molta gente stenta a crederci. Uno non può fare a meno di paragonarsi a loro, di chiedersi che fine avrebbero fatto al giorno d'oggi. C'è un ragazzo che ho mandato sulla sedia elettrica un po' di tempo fa, su mio arresto e su mia testimonianza. Aveva ammazzato una ragazzina di quattordici anni. Il giornale scrisse che era un crimine passionale ma lui mi disse che la passione non c'entrava niente, che da quando si ricordava aveva sempre avuto in mente di ammazzare qualcuno e che se fosse uscito di galera l'avrebbe rifatto. Sapeva che sarebbe andato all'inferno. Da li a un quarto d'ora ci sarebbe andato. Con la criminalità di oggi è difficile capirci qualcosa. Non è che mi faccia paura, ma non ho intenzione di uscire per andare incontro a qualcosa che non capisco. Significherebbe mettere a rischio la propria anima".
Questo è il succo, il messaggio. 

La violenza, così come la conosciamo oggi, ha un senso? Una radice che riconduce a un perché logico?
La risposta di McCarthy è, ovviamente, no.

Lo consiglio a tutti coloro che si chiedono il motivo di tutta questa crescente violenza nel mondo, e che non trovano una risposta razionale.


martedì 22 aprile 2014

Perché continui a dormire?

Questo incubo è molto recente. Ho atteso qualche settimana per capire e mettere insieme tutti i pezzi. Ricordo che appena mi svegliai avevo chiare nella mia mente solo alcune immagini. 

Mi trovavo in prossimità di un porto. Si vedevano il mare, la sabbia e la schiuma prodotta dalle onde. Camminavo fianco a fianco a una ragazza; aveva i capelli neri, lisci e un vestito nero con uno scialle di lana, nero anche quello.
Eravamo in un mercato, c'erano bancarelle che vendevano pesce, altre vendevano orecchini, anelli, ciondoli. Altri ancora, vestiti.
La ragazza non aveva un nome e durante il sogno non glielo chiesi. Era come se la conoscessi da poco, sembrava un primo appuntamento.
I suoi occhi, simili al petrolio, non puntavano mai verso di me. Camminava a circa due metri di distanza e mi parlava. Aveva il viso giovane, senza rughe e il naso pronunciato. La sua espressione era preoccupata, gli occhi si muovevano come se cercasse qualcosa o qualcuno.
Andammo avanti fino a quando il mercato non finì. 
Al posto delle bancarelle sbucarono dalla sabbia alcune baracche di legno e marmo, con i tetti a forma di cono, fatti interamente di paglia marrone.
C'era molta gente sulla spiaggia e noi decidemmo di avvicinarci. La sabbia era umida, pulita, senza alghe o detriti.
Come dal nulla, lungo l'orizzonte, il mare cominciò a gonfiarsi. Quella che sembrava una piccola increspatura dovuta al mare mosso, si trasformò in un'onda; era scura, grigia, sporca. 
L'onda divenne enorme, non saprei quantificare i metri, ma quando ci arrivò addosso, non si vedeva più il Sole.
Colpì la spiaggia e sradicò le capanne, le bancarelle del mercato e tutte le persone cominciarono a scappare e a urlare. Ognuno pensava per sè.
In tutto quel caos la ragazza scomparve, inghiottita dal mare. La cercai, ma non la ritrovai più.
Alla prima onda ne seguirono altre. Io finii per essere trascinato verso la strada, all'interno.
Detriti, massi, lampade, tappeti, persone, era diventato un miscuglio di cose quel posto.  
Dopo aver ripreso il controllo della situazione, riuscii a trovare un palo della luce. Mi aggrappai con tutta la forza che avevo. 
Una delle particolarità di questo sogno era la fatica che facevo nel tentare di muovere le braccia e le gambe.
Proprio mentre ero lì, mentre il mare lentamente si ritirava, vidi un letto, di quelli matrimoniali. Aveva lenzuola bianche e immacolate come le nuvole. Nascondevano qualcosa.
Mi avvicinai, scansai un mobile in legno e una sedia messa al contrario. Presi le lenzuola con entrambe le mani sporche di terra e le feci scivolare via, verso di me.
Sul letto c'erano circa una dozzina di bambini, non respiravano più ed erano abbracciati l'uno con l'altro. 
Al centro, vestito di bianco, sdraiato assieme a loro, con gli occhi chiusi e la testa un po' inclinata, c'era Papa Francesco. 
Anche lui, come quei bambini, non respirava più.

domenica 13 aprile 2014

Ossa

Credetemi
quando vi dico
che non bastano
quattro chiodi
per fare
un Gesù Cristo.

Il mondo,
questa balena
gravida,
sgocciolante,
è più subdolo
di un feto
nato morto.

E' ferro disciolto,
acqua all'arsenico.
E guizza, vola
corrode quanto
l'acido che ho
nello stomaco.

Credetemi
quando vi dico
che per nascere
a questo mondo
bisogna aver
fatto un patto
coi vermi.

Ricordatevi
di chiedere loro
un posto prelibato
al chiaro di luna,
così i posteri
vedranno le vostre
ossa, almeno quelle,
luccicare nell'altitudine.

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

venerdì 11 aprile 2014

Recensione: Marco Parlato - Tiroide - Gorilla Sapiens Edizioni

Ho scoperto questo giovane autore mentre spulciavo il catalogo della casa editrice Gorilla Sapiens. Appena letto il titolo mi sono detto: "Ma cosa si può scrivere con un titolo del genere?"
La risposta è ovvia: un libro del genere.



Trama: Il libro narra la storia di Stefano, un ragazzo universitario affetto da ipertiroidismo. La sua vita oscilla fra visite mediche e vita tipica da universitario in quel di Roma, nello specifico, all'Università La Sapienza.
Il tutto condito dalle parole che Stefano legge in un quaderno trovato per caso, scritte da un uomo nigeriano immigrato, Oluwafemi

Analisi: Il libro si legge in un fiato, sono circa centoventi pagine nelle quali i riferimenti alla cultura pop abbondano. L'occhio di Stefano è critico, acido più che caustico e rivela alcuni aspetti della società poco piacevoli, ipocrisia, cinismo fine a se stesso, egocentrismo e una linea sottile, finissima, che divide un italiano medio da un immigrato medio.
Lo stile è ancora acerbo, lo si percepisce da parole come liso, ingollare. Non per questo poco attraente. La narrazione scorre, forse troppo velocemente e alcune immagini appaiono poco chiare. 
Non vi è respiro, ma questo lo si può evidenziare come punto a suo favore. Vi è qualcosa di nevrotico, qualcosa del passivo-aggressivo e Marco Parlato ne fa un punto di forza nella sua narrazione. 
Qui si sta sviluppando uno stile, uno scrittore e da ciò che salta all'occhio, Marco Parlato è da tenere sotto osservazione, senza dubbio.

Consiglio questo libro a tutti coloro che hanno voglia di leggere qualcosa di diverso, di particolare e alle persone che con la timidezza non hanno nulla a che fare.

martedì 8 aprile 2014

Cammina insieme a me

Un giorno,
credimi,
sfiorirai
anche tu.

È l'unico
modo
che ho
per dirti
che sei
uguale a me.

Calpesteremo
lo stesso fango,
gli stessi orrori;
e io sarò lì
con te,
a domandarti
se qualcosa
di più infinito
dei nostri
passi
sia in grado
di portarci
lontano.

Goccioleremo
l'uno nell'altra,
e indosseremo
entrambi
la stessa paura
che distrae
la mente
dall'immortalità.

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".


lunedì 31 marzo 2014

Recensione: Steve Rodney McQueen - 12 anni schiavo

Questo film è tratto dall'autobiografia di Solomon Northup, scritta nel 1853. Mi ci sono accostato per curiosità, più che per fama.



Trama: Il film narra le vicende di Solomon Northup nel periodo immediatamente prima la guerra di secessione. Solomon è un uomo di colore, libero. Vive con la sua famiglia a Saratoga Springs, nello stato di New York. Ottimo violinista, cede all'offerta di ingaggio di due falsi agenti di spettacolo che lo venderanno come schiavo nelle piantagioni di cotone della Louisiana, sotto la guida dello schiavista Edwin Epps.
Da quel momento in avanti, Solomon rimarrà schiavo per dodici anni, cambiando più volte padrone e subendo ogni tipo di maltrattamento fisico.

Analisi: Questo è uno di quei film da vedere almeno una volta nella vita. Non si tratta di schiavismo fine a se stesso. Non è un film che accusa i bianchi, almeno, non dà quest'impressione. La parte interessante riguarda tutto ciò che accade a livello emozionale e sentimentale. Esiste una giusta dose di persone buone e di persone cattive, per dirla in termini semplici.  Ci fa comprendere come, durante lo schiavismo, esistessero comunque persone che guardavano a tale scempio come qualcosa di orribile, ignorante e senza alcun senso.
Mi ha ricordato da lontano Il colore viola di Steven Spielberg, anche se il pathos, bisogna ammetterlo, lo si ritrova in misura minore.

Consiglio questo film a tutti, perché è uno dei pochissimi, oggi in circolazione, in grado di fornire un punto di vista assolutamente neutrale ed equilibrato su ciò che è stato il razzismo e soprattutto lo schiavismo nell'America di metà '800.


mercoledì 26 marzo 2014

Ruggine

Una volta
vidi
un mio amico
intingere l'ago
in un
cucchiaio
pieno
di lacrime.

Dovette
raccoglierne
molte.

Non so
se avessero
tutte
lo stesso
sapore.

Ora,
quando guardo
le sue mani sporche
e le sue unghie nere,
penso:
piuttosto
che raccogliere
incubi
lascio che mi
si arrugginisca
la lingua.

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

mercoledì 12 marzo 2014

Coltivare

Ho imparato
a distruggermi
e rimontarmi,
ogni giorno.

Perché
per inseguire
il mondo
è necessario
sradicarsi
da se stessi.

Ho preso
il mio cuore
fra le mani,
e tra tutti
i suoi battiti
ho scelto
quello
più rosso.

L'ho lasciato
cadere,
sperando
di poterlo
coltivare
dentro di te.

Adesso chiedi,
domandami
se fra tutte
le smorfie,
i grugniti,
e le lacrime
non esiste
un collegamento
con i capricci
della terra.

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

martedì 11 marzo 2014

Tregua

Chiedo al tempo
un po' di tregua.

Gira così veloce
che si dimentica
di chiudere
la porta
quando se ne va.

E mi rimane dentro;
scalcia, cresce
e si divincola
come un bambino
malformato.

Ma la mia
natura
non mi
consente
di partorire.

E quindi,
me lo devo
portare dentro
come un grumo
secco e piatto,
come un estraneo
che sa
quanto è
profondo
il mio cadavere.

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

domenica 9 marzo 2014

Il mito di Aristofane

Credo che un sogno del genere l'abbiano fatto tutti, più o meno. Ancora non riesco a dargli un senso, una connotazione.

Mi trovavo in cucina, davanti ai fornelli. La casa era incredibilmente silenziosa e ogni cosa era al suo posto; i mobili, il lettore dvd, la televisione, la chiave di casa che ciondolava dalla serratura.
Il sole era caldo e i raggi si distendevano lungo il pavimento come tante linee rette segnate col pennarello fosforescente.
Dovevo chiudere gli occhi o tenere la testa alzata per poterlo guardare.
Di fronte a me c'era il lavabo. Era pieno d'acqua grigia e sapone fino all'orlo. Mi avvicinai. Non c'erano rumori, non sentivo i miei passi sulle mattonelle bianche o lo sciabordio dell'acqua lungo i bordi del lavabo.
Era come se fossi sordo, sordo e muto dalla nascita. Dico questo perché, in una certa misura, nel sogno sapevo di non poter parlare o ascoltare.
Infilai le mani nell'acqua, era calda, tiepida al punto giusto.
Ciò che trovai strano, però, era la profondità. Sembrava non finire mai.
Proprio mentre i gomiti cominciavano ad affondare, sentii qualcosa.
Era un braccio, un braccio sottile quanto il mio - non faccio molta palestra, lo ammetto.
Lo afferrai con entrambe le mani e notai subito che aveva qualcosa di strano, o meglio, mi procurava la stessa sensazione che si ha quando il braccio si addormenta sotto il cuscino; è qualcosa di tuo, è attaccato al tuo corpo, eppure non lo senti, ti sembra solo un peso che hai paura di rompere.
Tirai su tutto, lentamente.
Dopo pochi secondi emerse una testa con un mucchio di capelli castani sparpagliati sopra.
Subito dopo vidi il volto: era uguale al mio.
Non mi spaventai nemmeno un po'. Anzi, sentivo di dovermi prendere cura di questo mio clone - per modo di dire.
Aveva gli occhi sbarrati, fissi in un angolo della casa. Il viso non mostrava segni d'invecchiamento, ero io - probabilmente - a quindici o sedici anni. Nella mano sinistra reggeva qualcosa di pesante e scuro.
Lasciai per un attimo il suo corpo e tirai fuori quell'oggetto. Era una pistola, uno di quei modelli molto simili alle Glock diciassette. Tutta nera.
La raccolsi.
Guardai il pavimento, la luce riflessa e mi chiesi, senza pensarci: "Quanto dolore potrei provare nel ricevere una pallottola in mezzo alla tempia? L'avrei sentito, il dolore?"
Poi mi voltai di nuovo verso il mio clone. Stava di nuovo affondando, con gli stessi occhi sbarrati - non chiudeva mai le palpebre e potevo sentire il battito del suo cuore - nella stessa posizione di prima.
Lo tirai fuori dall'acqua una volta per tutte e mentre lo trascinavo lungo il pavimento, le sue gambe cominciarono a risucchiare i peli. Era nudo, totalmente. Così mi tolsi una camicia di flanella a scacchi rossi, bianchi e blu che avevo addosso e gliela misi attorno alle spalle allacciando tutti i bottoni con cura.
Cominciai a camminare verso la camera da letto e più mi avvicinavo, più questo mio clone ringiovaniva, perdeva i peli sul petto, sulle braccia, attorno alle mascelle.
Cominciarono a crescergli i capelli. Ero sempre io, ma con il corpo di una donna e avevo deciso di farci l'amore.
Di lì a qualche secondo, proprio mentre cominciavo a sbottonargli la mia camicia, mi svegliai.

Rosso vermiglio

Non è semplice
appendere
il cuore
al petto
di un'altra
e vederlo
sanguinare.

Se ci penso,
mi sento
come
una tartaruga
presa
a martellate
sul guscio.

Si smette
di gocciolare
solo quando
si è
sottoterra.

Lo fanno
le piante
con la rugiada,
il vetro
con la sua
condensa.

E quello che mi
chiedo quando
la guardo è:

Sto ancora
sanguinando?

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

venerdì 7 marzo 2014

Recensione: Jean-Marc Vallée - Dallas Buyers Club

Essendo un reduce del telefilm Breaking Bad - capolavoro assoluto a mio parere - non potevo non cimentarmi nella visione di un altro film che di verità e dinamiche fra bene e male ne ha da vendere per tutti.



Trama: Tratto da una storia vera, il film narra la vicenda di uomo di origini texane - Ron Woodroof - dedito a una vita di sregolatezze fra donne, alcool e droga. Un giorno, senza saperne nulla, scopre di aver contratto il virus dell Hiv e da quel momento la sua vita prende una piega diversa. Siamo negli anni '80, più precisamente nell'arco di tempo che va dal 1985 al 1988. Il virus dell'Aids si espande, è sconosciuto, fa paura e si crede che solo tossici e omosessuali possano contrarlo.
Gli viene dato un mese di vita. Sente parlare di un farmaco ancora in fase di studio, l'AZT.
Non essendo Ron incluso nel programma di sperimentazione, decide di procurarselo da solo. Non conoscendo natura e dosaggi del farmaco, in poco tempo rischia di morire e finisce per ritrovarsi in un ospedale in Messico, gestito da un medico radiato dall'albo che gli offre una cura alternativa a base di Peptide T, una proteina innocua, ma non approvata dalle case farmaceutiche.
Tre mesi dopo Ron si è ripreso, si sente meglio e decide quindi di importare illegalmente la cura negli Stati Uniti. Si apre così un giro d'affari nei quali i farmaci e i cocktail scoperti dal medico in Messico, vengono importati e somministrati ai malati gratuitamente tramite l'associazione che Ron, con l'aiuto di Rayon - una transgender anche lei malata - ha costituito: la Dallas Buyers Club. Sotto un corrispettivo di 400 dollari di iscrizione alla sua associazione, Ron fornisce tutti i farmaci che riesce a procurarsi oltre il confine. Ma non sarà una cosa facile.

Analisi: Non c'è molto da dire in realtà. Il film, attraverso soprattutto la splendida recitazione di Matt McConaughey, è fin troppo eloquente. Più che l'attività di Ron - il protagonista - viene messa in luce la lenta burocrazia e il giro d'affari che le case farmaceutiche sono in grado di mettere in atto pur di incrementare i loro profitti.
Non siamo davanti a un docufilm d'accusa, ma a una semplice storia di un malato terminale di Aids che decide di non seguire la corrente, di non sottomettersi alla voce principale.
Ron Woodroof è l'esempio di come l'accademia non sia sinonimo di sicurezza. Tutto il film è un esempio di come l'ingerenza capitalista è in grado di arrugginire gli ingranaggi di un sistema che altrimenti potrebbe funzionare con maggiore efficienza.

La domanda che ci si pone alla fine è: Siamo nelle mani di chi?

Possiamo veramente dire di essere al sicuro? Di avere uno stato, un governo, un gruppo di persone da noi elette, in grado di proteggerci?
Un tema sempre attuale, in un periodo in cui la crisi economica non dà più alcuna certezza. 
Ma come ci siamo finiti qui?
Anche questa è una delle molte domande che ci si pone. 
Una casa farmaceutica, un imprenditore, una multinazionale è veramente in grado di spingere l'economia di una nazione a suo piacimento e nella direzione che vuole per sè?

La risposta a voi che leggete.



Radici

Mi piacerebbe
crescere
come fanno
le radici degli alberi.

Loro non cercano
la luce.
Non hanno ambizioni.
Si allontanano
e basta.

Affondano
nel terreno
e aiutano chi
nella luce
ci è già nato.

Non voglio
le nuvole.

Datemi
un precipizio,
forse meglio
una gola.
Mi ci butterei
subito.

Sono curioso
di sapere
quanto
sono
profonde
le lacrime
che mostrate

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

giovedì 6 marzo 2014

Dove finisce il tuo cammino?

Questo sogno lo feci pochi mesi fa. Avevo superato alcuni problemi, alcune situazioni difficili nelle quali non c'entravo nulla, ma ero stato - come dire - tirato dentro contro la mia volontà.

Ero in macchina da solo. L'autostrada ricordava la Milano-Torino. Si vedevano le colline, le montagne sassose affacciavano sulla strada e sopra di loro c'era una fila interminabile di cipressi. 
Quegli alberi crescevano e mettevano radici enormi e lunghissime che sbucavano dalla pietra e ricadevano dentro come tentacoli. 
Guardavo continuamente verso l'alto, non guidavo io, probabilmente.
Non sentivo rumori, nemmeno il borbottio della macchina che cambiava marce, accelerava e rallentava. La strada era deserta.
Mi sentivo sereno, come se avessi appena finito di piangere.
Aguzzando la vista, fra i cipressi ne notai uno che aveva una parte del tronco bruciata, una bruciatura vecchia.
Tutta la parte intorno era priva di rami e foglie, come se ci fosse caduto sopra un fulmine la sera prima.
La stessa cosa la vidi su uno dei cartelli stradali che dicevano di proseguire dritto. C'era una macchia scura e l'angolo in alto a destra era stato ridotto in cenere.
Mi preoccupai e cercai subito di dare una controllata al cielo, ma era completamente azzurro e il sole spiccava come una pallina da tennis incandescente.
Man mano che andavo avanti, gli alberi diventavano sempre più alti, chiudendosi e formando una strada sterrata.
Da lontano, sopra un'enorme montagna di pietra, c'era un faggio delle dimensioni di un grattacielo alto almeno cento piani. 
Le sue radici scendevano come una cascata di capelli, abbracciando tutta la montagna.
Anche lì, fra le sue radici, ne trovai una bruciata, nera e con una voragine enorme al suo interno. Ma, guardando il cielo per l'ennesima volta, tutto era chiaro e limpido. 
Fermai la macchina.
In alto, proprio sul cucuzzolo di quella montagna c'era una casa. In qualche modo sapevo che solo chi ci abitava, sapeva come raggiungerla.
Mi arrampicai fra le radici del faggio. Erano calde, umide e respiravano. Si gonfiavano e sgonfiavano come il respiro di un bambino.
Ero sicuro che non mi sarebbe successo nulla di grave. Era come se quel posto fosse mio, lo avessi comprato io e lo conoscessi perfettamente.
Entrai nella voragine.
Era buio, ma non faceva freddo e non era nemmeno umido. Camminai verso una luce simile a quelle che emettono le abat-jour: calda, dolce e colorata come il miele.
Mi ritrovai in una casa, quella casa.
La prima cosa che vidi fu mia moglie. Aveva qualcosa di diverso nel viso. I capelli erano lisci e legati in un coda semplice. Le rughe attorno agli angoli alti delle labbra erano più spesse. I lineamenti lungo gli zigomi, accentuati.
Le donavano un'espressione seria, vissuta. In quel momento feci mente locale. Ero circa vent'anni più vecchio, ed eravamo sposati. Lei lavorava per un'azienda farmaceutica e la casa l'avevo voluta comprare di proposito sopra una montagna, per sentirmi e sentirci più sicuri.
A lei piaceva, ma si lamentava delle difficoltà che incontrava nel raggiungerla.
Poi mi prese per mano, senza che me ne rendessi conto. Disse di dovermi far vedere una cosa.
Mi portò in un corridoio lunghissimo, tappezzato di moquette blu e bianca. Alla fine di quel corridoio c'era una porta e dietro potevo sentire un gran vociare.
Mia moglie si fermò dietro di me e disse: "Aprila quando tutto finirà".
Mi sedetti sul pavimento. Ebbi l'impressione che intorno a me il tempo stesse girando più velocemente. Mi guardai le mani, stavano diventando rugose e rigide.
Mi alzai, sentii un dolore tremendo alla schiena, nella zona lombare. Aprii la porta e quello che vidi furono due bambini - un maschio e una femmina - corrermi incontro.

"La grotta dei sogni è la fine di un tunnel nel quale il Bruco cataloga e ripone tutti i suoi sogni, quelli belli, fantasiosi e sereni".


mercoledì 5 marzo 2014

Smeraldo

L'opaco discende
la montagna,
si sofferma
sul finire del mattino.

E' una piaga solitaria
la mia.

Una di quelle
in cui
amalgami te stesso
nella speranza
di non essere
labile.

Prosciugo il suo
letto di foglie verdi,
spalmo il suo olio
sulle gengive.
Genera
polluzioni mentali,
stelle artificiali
lanciate in quel
vischio palpitante.

E tutto finisce
in un sipario
senza ritorno.
E io rimango lì,
in ginocchio,
con le mani fra
i capelli.
Aspettandola
come un'antica
gioia
senza eternità.

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

Recensione: Tim Burton - Big fish

Big fish è uno di quei film che bisogna vedere almeno una volta nella vita. Io l'ho trovato andando a spulciare la biografia di Tim Burton - scomprendo, tra l'altro, che è tratto dall'omonimo romanzo di Daniel Wallace - e ne sono rimasto a dir poco folgorato


Trama: Questo film narra la storia di Edward Bloom, un padre e un marito di famiglia che ama raccontare il proprio vissuto mischiandolo alla sua fervida immaginazione.
Si passa dall'amico gigante - alto quasi cinque metri - a una strega con l'occhio di vetro, fino ad arrivare alla guerra e al leggendario pesce che nessuno può catturare.

Analisi: E' un film per tutti, su questo non ci sono dubbi. E a guardarlo bene, solo un regista così incline alle favole poteva girarlo.
Edward Bloom, interpretato da un eccellente Ewan McGregor (Trainspotting) ci porterà con lui in un viaggio alla scoperta del suo modo di vedere il mondo, quello che usano i bambini per intenderci, a testa in giù.
Ciò che emerge dai suoi racconti, però, è proprio la realtà: Edward Bloom racconta le sue esperienze, il modo in cui conquistò sua moglie fino alla nascita di suo figlio - le uniche due persone che nei suoi racconti rimangono totalmente reali - in maniera fantasiosa, come in una sorta di realismo magico o di viaggio onirico.
Un po' come quando si sogna: le azioni sono immaginarie, fantasiose, ma ricordano da vicino ciò che viviamo, proviamo e pensiamo.
E al centro di ogni cosa rimane il romanticismo, l'amore.
Il senso del film è proprio questo: l'amore rende reale qualsiasi cosa. E' uno dei tanti messaggi. Guardare al di fuori di noi sempre con gli occhi di un bambino, non lasciare che la fantasia scompaia nei problemi di lavoro, nello stress e nella routine. 
Per certi versi, lo stile ricorda da lontano un altro film, Vita di Pi. 
Il concetto di racconto e di raccontare assume un valore supremo, più importante della storia stessa. La vita è interessante - senza dubbio - ma la nostra mente, la nostra forza immaginifica, può renderla unica.

Non lo trovo un film drammatico. 

Al contrario, paradossalmente è in grado di narrare il concetto di esistenza per ciò che è: una lunga favola nella quale ognuno di noi è protagonista.


martedì 4 marzo 2014

Eros e Thanatos

È ancora lì quella stronza. Ancora lì a darsi da fare con quello scemo, mentre io devo starmene chiuso in questa stanza a nutrirmi del suo odore e dei suoi ricordi. Ormai sono tre settimane che ci esce.
Perché non mi considera? Dov'è che sbaglio?
Certo, non sarò un modello o un facoltoso uomo d'affari, ma lei è così giovane e io tremendamente assuefatto.
La conosco da una vita eppure, nonostante i nostri occhi si siano incrociati innumerevoli volte, non sono mai riuscito a penetrarli.
Preferisce la compagnia di quella specie di eunuco alle follie di un romantico come me.
Penso a lei, tutte le notti, in questa stanza. Non riesco a decifrare la percezione che nutro per il suo corpo.

Percorro il corridoio che porta al bagno. Le riviste porno le nascondo nel solito posto, all'interno dello scarico del cesso.
Quelle non osano tradirmi, mai.
Certo, di donne qui ce ne sono per tutti i gusti, ma la mia mano segue le sinuosità delle sue cosce. Cazzo, non riesco a togliermela dalla mente.
Quel patetico "ciao" prima di uscire, quel sorriso confezionato.
Giuro che quando torna l'ammazzo. Si! Così sarà solo mia, per sempre. Non mi frega di finire in galera e nemmeno cosa penseranno i miei di tutta questa storia.
Così voglio vedere chi ricatta, voglio vedere con quale scusa cercherà di frenare i miei istinti. Per quelli ormai non esiste controllo.
Ed è sempre stato così; io, lei, le giornate passate a letto.
- Se provi a fare il furbo lo dico a tutti, chiaro?
Sempre la stessa frase. Lo stesso gioco di parole e catene mentali. E' troppo piccola per me, questo lo so. Forse ho sbagliato, non dovevo lasciarmi andare in quel modo.

Non mi serve molto per macchiare di bianco le riviste che reggo sulle gambe. Le richiudo senza pulirle e mi tiro su i jeans. Non mi lavo nemmeno le mani. Non lo faccio mai.
Ogni sera, di solito, mi faccio una sega e le rifilo la mia poltiglia bianca fra il secondo e il dessert. Tanto non se ne accorge.
Tra pochi minuti sarà di ritorno, meglio prepararmi, la casa è vuota.
Mi affaccio alla finestra e osservo quella maledetta cinquecento parcheggiare davanti al viale. Da quando la vedo salire su quella scatoletta - quasi tutte le sere - odio il colore blu.
Pochi minuti dopo suona il citofono, è lei.
Apro senza risponderle e lascio la porta aperta. Assaporo ogni rumore che emette; dal cigolio fino ai suoi passi sul parquet.
- Ehi Robi, sei in casa?
Non le rispondo. Attendo dietro la porta della mia stanza. In silenzio. Lei la sorpassa lentamente e io sbuco subito dopo dalla soglia, afferrandola per i capelli.
La frenesia aumenta, le mascelle si serrano.
La mia mano libera aderisce alle labbra, sigillandogliele per sempre.
La trascino verso il bagno, il luogo più vicino. Sento l'odio vibrare attraverso le mie braccia.
Sbatto con forza la sua faccia sul bordo del lavandino. Una volta, due. Alla terza un rigagnolo vermiglio inizia a sgorgare dal suo naso. Continuo, non riesco più a fermarmi.
Le sue ginocchia cedono. Nel riflesso dello specchio vedo il suo sorriso spezzarsi sotto i miei colpi.
La lascio cadere sul pavimento. Un minuto dopo mi ricordo di respirare. Deglutisco l'aria viziata dai suoi odori. La divorerei se potessi.
Mi inginocchio. Ascolto gli ultimi battiti. Il suo respiro tramutato in piccoli rantoli soffocati. Avvicino le mie labbra al suo orecchio, le scosto delicatamente le ciocche bionde insanguinate.
- Visto sorellina? Te l'avevo detto che prima o poi l'avresti pagata.

"La grotta degli incubi è la fine di un tunnel nel quale il Bruco cataloga e ripone tutti quei sogni in cui la pace e la serenità sono bandite per legge".

Chiedilo alle stelle

Chiedilo alle stelle
che giorno è.
Io ho smesso di guardarle
da quando ho iniziato
a camminare.

Non è solitudine,
né vuoto.
Sono solo così stanco.

Mi piacerebbe
dimenticare il mio nome.
Arrotolare il passato
in un sacco di lana
calda
e nasconderlo
in fondo
all'armadio
delle favole.

Prenderei volentieri
una siringa
assieme a te.
Ma non ho mai capito
come si fa.

Tra il mio sangue
e il tuo piscio
riuscirei a vomitare
tutti quegli arcobaleni
che non sono stato
in grado
di mostrarti.

Si, chiedilo alle stelle
come mi sento.
Loro brillano
e io le invidio
perché,
nonostante tutto,
non sanno cosa sia
un sorriso.

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

domenica 2 marzo 2014

Recensione: Adrian Lyne - Allucinazione perversa - Jacob's Ladder

Questo film mi ha attratto non tanto per la trama, quanto per il ruolo che hanno i sogni - se così possiamo definirli - nella mente del protagonista.
Inutile dirlo, al Bruco piacciono certi film.



Trama: Il film narra la storia di Jacob, un reduce della Guerra del Vietnam laureato in filosofia che, una volta tornato dal conflitto, decide di smettere di pensare e intraprendere il lavoro di impiegato alle poste.
Divorziato dalla moglie Sarah, il loro matrimonio è stato portato alla rottura dalla morte del figlio Gabe, ucciso da un automobilista.
Jacob intraprende una nuova relazione con Jezebel e ricomincia a vivere una vita tranquilla. Un giorno, però, inizia ad avere strani flashback della guerra e, assieme a quelli, inquietanti allucinazioni di demoni e mostri.
Contemporaneamente il governo americano comincia a perseguitarlo, nel tentativo di fargli chiudere la bocca sugli avvenimenti relativi alla Guerra del Vietnam. Jacob decide allora di riunire alcuni commilitoni reduci anche loro dal conflitto e di contattare un avvocato per far luce sul'accaduto. Senza alcuna spiegazione, sia i compagni che l'avvocato, dopo un primo riscontro positivo, decidono di lasciare perdere, abbandonando Jacob ai propri demoni. Poco dopo viene contattato da un chimico: un'ex hyppie che cucinava Lsd ed era stato costretto dal governo statunitense - pena la galera - a produrre una droga, definita da lui stesso la Scala, in grado di rendere i soldati delle vere e proprie macchine da guerra senza umanità. Il chimico gli spiega ogni cosa e Jacob cade nello sconforto, perseguitato dalle visioni.
E' il suo fisioterapista, Louis, a regalargli l'unico spiraglio in grado di farlo tornare in sé. Louis spiega al protagonista il suo punto di vista sui demoni tramite la teoria di Eckhart, facendogli capire che è lui stesso a non voler lasciare andare la parte oscura di sé, le sue colpe e i suoi errori. E che questa sua scelta si tramuta in demoni e mostri.

Analisi: E' un film piuttosto biblico.
La moglie Sarah rappresenta il bene con i suoi capelli biondi, mentre Jezebel con i suoi - scuri - il male. Louis, il fisioterapista che arriva sempre nel momento del bisogno, viene definito da Jacob stesso il suo angelo custode.
Un film onirico, questo di Lyne, che esplora i risvolti e le ipotesi sul principio stesso della morte.
Qui non rappresenta una fine, rappresenta un purgatorio. Siamo noi a deciderne la scadenza. Siamo noi a decidere di non rimanere più legati alla vita.
In ognuno di noi esisterebbero il Paradiso così come l'Inferno.
Come in una bilancia, le nostre scelte possono far oscillare la nostra coscienza sia nell'uno che nell'altro. La volontà di essere, essere ed esistere nella parte giusta, dipende solo dalle nostre scelte e non da come affrontiamo l'ultimo grande passo.
Ognuno di noi potrebbe raggiungere la pace, se solo provasse a cercarla.
Da evidenziare come tutto l'avvenimento avvenga nel momento della morte di Jacob - colpito dalla baionetta di un suo compagno sotto effetto della Scala - mentre questi si trova ancora in sala operatoria, durante la guerra. A sottolineare che il mondo onirico sfugge alle regole dello spazio e del tempo.

sabato 1 marzo 2014

Chi sei tu?

Bugie d'inchiostro
frammenti di penna.

Realtà di plasma
e assenza di percezioni.

Indossi un manto
di ruggine
per non inaridire.

I tuoi occhi profumano
di pioggia,
e levigano
i sensi
come fiori
di balsamo.

Cielo rosso,
odore di sangue.

Chi sei tu?

Un addensarsi
di nuvole sorde
e raptus
estatici.

"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

Nel giorno più buio

E passerò
inosservato
nel mondo.
Con gli occhi
tinti
di misericordia,
e un nastro blu
a sigillare
il mio addio.

Mi accosterò
a questi versi
come l’anziano
al proprio bastone,
e sarò il Gesù Cristo
nella solitudine
e nella miseria.

Non concederò
pietà a Dio
per i suoi peccati,
poiché fanno parte
del senso degli uomini.

Il mio ricordo
sarà un’ombra
che sussurrerà
ai cieli
parole di neve,
chiedendomi
quante vite
dovrò restituire
prima di poter
santificare
il mio nome.


"Gli spicchi di mela sono frammenti che il Bruco dimentica nelle sue gallerie. Qualche volta marciscono, qualche volta vengono ritrovati e altre volte si perdono per strada".

venerdì 28 febbraio 2014

Recensione: Franz Kafka - La metamorfosi

Inizio subito dicendo che sono di parte. Franzk Kafka è così reale da entrarti dentro per effetto osmosi. Come sarà successo a molti di voi, Kafka l'ho incontrato a scuola. Se ne stava nascosto fra le pagine, timido timido e un po' miserabile.

Franz Kafka Nacque a Praga nel 1883 e morì di tubercolosi a Kierling nel 1924. In vita, molte delle sue opere non furono mai pubblicate. Persona molto angosciata, soffrì di anoressia nervosa e disturbo ossessivo compulsivo. I suoi scritti - per alcuni critici molto vicini a quella corrente di pensiero che sarà definita in seguito esistenzialismo - riflettono le sue ansie e il suo punto di vista nei confronti della condizione umana.




La metamorfosi è un libro da leggere quando si ha il punto di vista giusto per farlo. A metà fra surrealismo e realismo magico, racconta la storia sfortunata di Gregor Samsa - pseudonimo che ricorda non poco il nome del suo autore - alle prese con un evento totalmente inaspettato.
Una mattina come tante altre, Gregor Samsa, un commesso viaggiatore che lavora per mantenere la sua famiglia, si risveglia trasformato in un gigantesco e ripugnante insetto.
Da questo momento dovrà fare i conti con la sua nuova condizione e con le reazioni avverse dei suoi familiari.

Questo libro è in grado di delineare tutti gli aspetti psicologici e relazionali di Kafka. Il difficile rapporto con il padre, il senso di alienazione e angoscia.
L'autore prende una famiglia normale, una persona normale e, invece di trasformare il tutto o far evolvere gli eventi emozionali secondo le normali logiche umane, mette in piedi una situazione immaginifica e allegorica. La metafora del diverso; ripudiato, odiato ed emarginato.
Non esiste via di fuga per il protagonista, al contrario, può solo fare i conti con la propria condizione, accettarla così com'è e mettersi il cuore in pace.
L'evoluzione, in questo libro, risiede nel processo di spersonalizzazione nel quale Gregor Samsa - che in un certo senso rappresenta l'individuo emarginato - viene risucchiato.
Sentirsi diverso, essere ripudiato e lasciato solo. Il senso di claustrofobia (psicologica soprattutto) metaforizzato dal fatto che Gregor Samsa non lascia mai la propria stanza. 
Elementi che concorro tutti nel rendere il grottesco una situazione reale e sentita nel lettore, una condizione sempre presente e pronta a emergere.
Non esiste un lieto fine, non troverete un finale aperto alle interpretazioni. 
Più la narrazione procede, più comincerete a odiare Gregor Samsa più dei suoi stessi genitori. Kafka riesce a far sentire al lettore tutto il peso della sua condizione.
E' come leggere una lenta e dolorosa agonia, e sapere già che non vi sarà via d'uscita se non la morte. Lo sappiamo, appena Gregor Samsa si risveglia da insetto, che morirà di lì a poco. Eppure non riusciamo a fare a meno di arrivare fino alla fine proprio perché non possiamo andare contro le logiche della condizione umana.

L'uomo si fa granello di sabbia, debole, piccolo e insignificante. E attraverso questo racconto Franzk Kafka ce lo fa capire, dimostrando che, messi a confronto con la vita, siamo tutti un po' miserabili.


Quanto è lontana casa tua?

Erano giorni che avevo un po' di tarli per la testa. La scuola non funzionava, la mia situazione sentimentale non funzionava, insomma, molte cose andavano storte e il mio inconscio decise di farmelo capire una volta per tutte con questo incubo.

Ero in un campo di terra appena arata. Il cielo era buio, ma non c'erano nuvole e nemmeno stelle. Era, semplicemente, nero.
Una luce pallida e fine come la neve cadeva tutta intorno e l'illuminazione risultava abbastanza precaria. Non c'era vento, non faceva freddo.
Cominciai a camminare, le scarpe - avevo su un paio di all star nere - affondavano nel terriccio senza difficoltà, era molto simile alla sabbia, ma aveva il colore dei campi appena concimati.
Guardando avanti, lungo l'orizzonte si stava facendo largo la sagoma di una casa. Era una villa di campagna: due piani con tante finestre, un tetto pieno di tegole scure e probabilmente una soffitta.
Inciampai e caddi con la faccia nel terreno. Sapeva di muffa, aveva quel sapore aspro del verde che si forma sulla frutta quando è andata a male.
Quando mi rialzai, mi resi conto di aver urtato il teschio di un animale con la punta del piede. Aveva le corna bianche e lunghe, il muso simile a quello di un capriolo e mi sorrideva. Nell'incavo dell'occhio destro c'erano si e no un milione di larve bianche, grosse come il mio pollice.
Mi venne il vomito e mi allontanai.
Cominciai a correre verso quella casa, ma facevo fatica come se avessi due macigni legati alle caviglie. Le gambe non riuscivano a muoversi con agilità.
Il terreno cominciò a rigurgitare teschi dalle forme più assurde: alcuni a forma di patata, altri a forma di cuore, altri ancora sembravano tanti teschi umani gettati in un mucchio. Cercavo di saltarli, ma ne spuntavano sempre di nuovi assieme a coleotteri delle dimensioni di una mano.
Cominciai a sentire freddo e mi accorsi di avere addosso solo una t-shirt a maniche corte.
Finalmente raggiunsi la porta della villa, entrai, faceva ancora più freddo. La hall era una stanza grande con il pavimento in parquet e una scala frontale che portava ai piani superiori.
Sul lato destro e su quello sinistro probabilmente c'erano la sala e la cucina, ma non ci andai. Non so ancora bene il motivo, ma sentivo il bisogno di salire quelle scale.
Avevo le mani gelide e dalla bocca usciva la condensa del mio alito.
La cosa strana è che, proprio nel sogno, quella condensa mi fece tornare alla mente il film "Il sesto senso".
Avevo ricordi diversi nel sogno. Ero una ragazza, alle elementari avevo una maestra di nome Giulia che abitava in una casa simile, era in aperta campagna, in mezzo alla Toscana ed era circondata dai vigneti perché suo nonno gestiva un'impresa in cui vendeva vino ai ristoranti. E io mi ricordavo bene alcuni di quei ristoranti.
Mentre riaffioravano tutti quei ricordi, un gradino alla volta salivo quelle scale e, un gradino alla volta, le mie mani diventavano sempre più fredde e intorpidite.
Raggiunsi il primo piano, ma non c'erano stanze. Era un unico grande corridoio con il soffitto altissimo e portava a una porta minuscola fatta di legno. Provai ad aprirla, ma non ne avevo la forza. La mia mano era diventata così piccola...
Decisi di andare al secondo piano. Le scale non emettevano alcun suono ed erano in marmo nero.
C'era una sola stanza, la porta era socchiusa e da quella piccola fessura proveniva la luce di una lampada a olio e uno strano odore come di carne in decomposizione.
Mi infilai dentro, quasi di nascosto.
C'era una finestra davanti a me, dava sul campo di terriccio.
Vicino alla lampada a olio c'era un materasso e lungo il bordo era seduta una persona in abito nero. Aveva i capelli della maestra, Giulia.
Accarezzava qualcosa, all'inizio non riuscii a vederla perché la sua schiena la copriva per intero.
Mi avvicinai.
Il pavimento in parquet cominciò a scricchiolare, ma quella donna non si voltò. Così, andai più vicino e mi fermai proprio dietro di lei.
Sul letto c'era una bambina dai capelli biondi, aveva il viso pallido e le labbra secche e screpolate. Guardai il lenzuolo per vedere se il suo petto si muoveva. Era immobile come un baco da seta.
La donna, la maestra Giulia, senza voltarsi, cominciò a piangere. Singhiozzava. L'odore di carne in decomposizione era diventato insostenibile, avevo lo stomaco chiuso e facevo fatica a trattenere i conati.
Quando mi voltai e provai ad andarmene, la maestra mi prese per un braccio.
Vidi solo la sua mano, era enorme in confronto al mio braccio e il soffitto, in un secondo, era diventato incredibilmente alto.
Non mi voltai verso di lei. La maestra smise di piangere e mi disse: "Finalmente sei tornata".



"La grotta degli incubi è la fine di un tunnel nel quale il Bruco cataloga e ripone tutti quei sogni in cui la pace e la serenità sono bandite per legge"